Livorno 5 gennaio 2008
Il Silos, la Fortezza e il nuovo ospedale.
Sempre più arduo comprendere la logica che sottende l’insieme delle trasformazioni urbane della nostra città, al di fuori di quella del tutto evidente, di monetizzazione (questa è la valorizzazione ?) del territorio comunale.
Per la cronaca: è assai difficile convincersi che l’ex Silos granai della Calata Sgarallino, quel massiccio parallelepipedo che incombe con la sua mole opprimente sulla fortezza del Sangallo, sia opera da conservare e salvaguardare; tanto più in una città dove si è disinvoltamente demolito il Politeama, e più di recente l’Odeon, architettura di tutt’altro valore.
Né il criminale abbandono delle vecchie e bellissime Terme del Corallo, reso definitivo con la costruzione del cavalcaferrovia, ha suscitato le meritate proteste pubbliche; tardivamente con l’opera ormai in rovina la Sopraintendenza si è decisa ad esercitare il suo ruolo, dopo che né ai palazzinari di Porta a Terra, nè a Bottoni e compagni, era stata richiesta la sistemazione dell’area e il restauro delle Terme come contropartita per gli ingenti guadagni autorizzati dalla trasformazione della zona.
Alla luce di ciò, viene spontaneo chiedere all’Amministrazione Comunale se il mantenimento del Silos nello stato attuale è una scelta definitiva e ponderata. Anche perché non si preserva il nucleo originale degli anni 20, ma anche le parti successive assai recenti, di nessun valore né artistico né testimoniale.
Il fabbricato ormai vuotato da ogni funzione produttiva, può essere a nostro avviso, abbattuto senza nessuna nostalgia: la sagoma del nuovo albergo potrebbe essere meglio studiata nel rispetto della vicina Fortezza.
Un intervento nell’area del Forte del Sangallo, dovrebbe essere di grande qualità, progettando una nuova moderna emergenza architettonica, capace di dialogare con il vicinissimo monumento storico e la darsena. Soprattutto dovrebbe essere accompagnato da una contestuale risistemazione urbanistica dell’intera zona, oggi devastata da reti per pollai, piazzali asfaltati, resti di cantiere, che circondano le mura e gli antichi bastioni.
Se ciò non avverrà anche la Porta a Mare ancor più della porta a Terra, non produrrà alcun risultato positivo per la collettività, nemmeno come effetto collaterale.
Degli elementi negativi delle scelte urbanistiche recenti abbiamo già parlato e ne sono testimonianza l’agonia della zona centrale, dove spente le luci delle vetrine rimane solo il deserto.
Ma a conferma della confusione adottata, dall’urbanistica per caso, dove si inseguono scelte contraddittorie e slegate tra loro, è giunta la notizia dell’ipotesi di spostamento dell’ospedale, già oggetto di importanti interventi di ristrutturazione, verso Montenero.
Immaginiamo la sorpresa dei livornesi, lettori delle cronache locali, nell’apprendere sul finir dell’anno che dovremo rinunciare allo storico ospedale in corso di ampliamento, di facile accesso da tutti i quartieri per sostituirlo con un monoblocco lontano dalla città.
E’ incredibile che gli estensori della proposta affermino senza arrossire che la delocalizzazione serve a “ un nuovo processo di rivilitazzazione del centro e delle sue attività e servizi, nel pieno rispetto dell’ambiente per una migliore vivibilità”.
Ci pare di capire che dopo le addizioni residenziali di Porta a Mare e del nuovo Centro non previste dal Piano regolatore livornese, si vuole regalare alla speculazione edilizia anche le appetibili aree dell’ospedale, alla faccia di malati e loro parenti che verrebbero spostati sempre più lontano.
Gli attuali problemi della sanità sono ben altri, e poco hanno a che vedere con la struttura architettonica dell’attuale ospedale, che tra altro è facilmente adattabile a nuove esigenze, con interventi mirati all’adeguamento funzionale, come dimostra la recente costruzione della Piastra.
Occorre semmai riorganizzare e umanizzare la sanità, e per fare questo occorre più personale, più attenzione ai diritti del malato e dei loro familiari. Anche questo obbiettivo ha dei costi elevati, ma una volta tanto sarebbero soldi ben spesi.
Comunque trattandosi di una problematica complessa e di larghissimo interessa sociale, che va ad incidere ancora più di altre sulla qualità della vita dei cittadini, occorre avviare un confronto che coinvolga operatori e utenti e non solo gli amministratori.
Se il nuovo anno porterà una nuovo Piano regolatore ci auguriamo che nasca una discussione ampia, partecipata e che si torni a proporre un progetto unitario e globale, rinunciando ad un’urbanistica fatta da una serie di accordi occasionali con i privati al di fuori di ogni disegno complessivo.
Certo la legge di “riforma” delle autonomie locali del 1993 ha reso più difficile il ritorno ad un’urbanistica non colonizzata dal mondo affaristico, da poteri personali oligarchici che fanno e disfano le città, dentro e fuori dai piani, dentro e fuori le molte deroghe offerte dalle leggi e dalle regole: il decisionismo indiscutibile è diventato esso stesso il piano.
I consigli contano sempre meno e dentro di essi ridotte minoranze si torcono tra impotenza e frustrazione.
Allora, senza attendere eventi catastrofici che risveglino le coscienze, bisogna riuscire a riaffermare quell’idea della città come bene comune, come storia e identità sociale e il suo progetto deve diventare idea collettiva pubblicamente discussa e condivisa.
Noi lavoreremo per questo.
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