sabato 7 dicembre 2019

A PROPOSITO DEL PALAZZO GRANDE Tommaso Tocchini per OTU


Qualche giorno fa Dario Matteoni è intervenuto nel dibattito sul Palazzo Grande, argomento tra i più praticati e perduranti nella stampa locale e sui social media, con una riflessione storico-critica sulla nascita dell’edificio e sul suo valore architettonico,  chiudendo l’articolo riscontrando la “contraddizione insoluta, …. nel dualismo, mai risolto, di pubblico e privato, di rappresentatività e di commercio” di cui la condizione del Palazzo Grande è emblema in questa città “che deve ancora fare i conti con l'eredità non banale della sua architettura moderna”. È questo un giudizio sul caso che colloca la questione nel contesto storico in cui si è manifestato e sposta definitivamente il dibattito sul futuro dell’edificio a confrontarsi con la realtà fattuale.
Con l’intenzione della nuova amministrazione di aprire una seria riflessione sul futuro dell’edificio e sulle prospettive di una sua rinnovata funzionalizzazione, forse non a caso resa pubblica con l’articolo apparso martedì 3 dicembre, vengono spazzate via le ultime banalità sulla eliminazione del nobile interrompimento ed ogni ipotesi antistorica sul riuso di una “piazza liberata” che ancorché impraticabile disvelerebbe un deludente panorama lontano dalla suggestione delle stampe e dalle fotografie d’anteguerra.
Ieri l’intervista a Roberto Petroni rivela le intenzioni della proprietà orientata verso un utilizzo, direi convenzionale,  degli spazi commerciali, con la ricerca di soggetti che garantiscano un più esteso utilizzo dei locali, ipotesi che rappresenta sostanzialmente una operazione di sostituzione, lasciando la destinazione della parte più impegnativa per dimensione ed articolazione, il volume del cinema-teatro,  a diverse ipotesi ispirate a recenti fortunate esperienze di città turistiche, ma anche palestre/centri fitness.
Ora la speranza è che, componendo le riflessioni che possono scaturire da queste tre fonti, si possa trovare un futuro al Palazzo Grande che possa convertire il senso negativo di Interrompimento a quello di Fulcro di una vitalità del centro storico da rigenerare.
A tal proposito alcune considerazioni sono d’obbligo.
Da tempo si parla di creare in città, nell’ambito dell’attività turistica, strutture per la promozione di prodotti territoriali o per la ristorazione, a partire dalla vecchia assegnazione del Forte S. Pietro al CNA da tempo scaduta e dimenticata, fino alle attuali volenterose esperienze al Mercato delle Vettovaglie, ed al probabile analogo utilizzo dell’ex teatro Lazzeri e di parte delle zone commerciali di Porta a Mare.
La presenza di palestre e centri fitness a Livorno è invasiva e pare il destino ineludibile di tutti i contenitori urbani in cerca di destinazione: è da evitare un teatro Grande come l’Odeon!
Una pianificazione mirata a coordinare tali attività e ad operare scelte parametrate alla domanda a medio-lungo termine, ed alla vocazione dei luoghi eviterebbe fenomeni di inutile concorrenza e di veloce obsolescenza.
Un concorso di idee per dare forma ad opzioni praticabili per l’attualizzazione del complesso architettonico sarebbe un opportuno preliminare ad una decisione definitiva, che renda partecipe la cittadinanza di una sorta di riappropriazione ideale dell’edificio, per come era stato concepito, riconoscendone l’appartenenza  al patrimonio della città.
Ulteriori approfondimenti vanno rimandati quindi alle occasioni che si auspica vengano create dall’Amministrazione per inaugurare finalmente l’avvio una reale partecipazione a tutte le scelte di interesse generale, ma nello stesso tempo va lanciata una ipotesi che potrebbe collocarsi nell’ambito di una stretta collaborazione pubblico-privato e  che certamente darebbe una energia permanente al luogo ed alle attività presenti: una semi-istituzionalizzazione attraverso l’utilizzo di parte dell’immobile a sede dell’Urban Center.
L’assoluta centralità del Palazzo Grande, la prossimità al Municipio ed agli uffici amministrativi, la particolare composizione degli spazi tra i quali da evidenziare:
-          i percorsi tracciati dagli attraversamenti interni ortogonali, opportunità di uno spazio  pubblico alternativo a quello stradale, mai sfruttato con l’apertura delle attività presenti verso l’interno che avrebbero creato una zona di relazione da valorizzare perseguendo una situazione di convivenza e sicurezza;
-          Il primo piano dall’articolazione singolare dei pieni e dei vuoti ed il loggiato, una specie di piazza coperta che si affaccia sulla piazza aperta;
-          La presenza delle due scale laterali (via Pieroni e via Cogorano) che portano a questo primo piano, mai utilizzate, che ne agevolerebbero l’accessibilità;
-          La disponibilità, non esclusiva, di sale per eventi.
Queste alcune caratteristiche che consentirebbero di organizzare un vero centro aperto ai cittadini e di generare forte attrattività anche per un indotto commerciale e di terziario che si installasse nelle altre zone dell’edificio, funzione non alternativa al Cisternino di città in quanto quest’ultimo per inidoneità strutturale e per mancato adeguamento funzionale non ha potuto finora e non potrà mai assolvere alle necessità pratiche di un Urban Center.



venerdì 18 ottobre 2019

A proposito di nuove ipotesi di localizzazione della struttura ospedaliera. p.O.T.U. Daniela Bertelli e Daria Faggi


Un vuoto di memoria: Non perdere la testa e la memoria è obbligo di tutti. Claudio Magris.


Dopo gli ’articoli comparsi in questi giorni su Il Tirreno riguardanti  una ipotesi di diversa ubicazione dell’ospedale nuovo, diversa da quanto previsto dal Piano Strutturale, ,come Osservatorio Trasformazioni Urbane  riteniamo opportuno  intervenire nuovamente su una questione che ha ormai una storia ultradecennale,  che ha visto scelte,  per usare un eufemismo, avventurose: una localizzazione urbanisticamente assai discutibile, una ipotesi di reperimento di fondi che privava la comunità di molti “beni pubblici”, il ricorso allo strumento  projet financing,  che aveva già mostrato in numerose esperienze di essere fallimentare ed anche molte menzogne (ricordate quando si parlava, ad esempio,del pericolo di perdere i “finanziamenti europei”, mai previsti in realtà ?)

Quelle scelte, su cui non era stato attivato alcun percorso partecipativo, se non confronti   “carsici”, (per usare una espressione del sindaco di allora), hanno comunque provocato una forte reazione: la costituzione di un comitato cittadino contro la localizzazione a Montenero basso, dibattiti, raccolta di oltre 11.000 firme e articoli di architetti , anche dell’osservatorio trasformazioni urbane per l’urbanistica  partecipata, un referendum fortemente osteggiato dalla Amministrazione allora in carica, che dette comunque un risultato inequivocabile contrario alla localizzazione allora individuata.

Infine si è convenuto che il miglior sito dove far nascere il nuovo ospedale, è  e resta l’attuale area ospedaliera di Viale Alfieri., un’area  semicentrale agevolmente raggiungibile da ogni quartiere della città anche in autobus, e  senza patente e auto privata, condizione di molti anziani che sono ovviamente i più assidui frequentatori di ospedale e poliambulatorio; e’  inoltre, possibile una volta aperto l’ingresso in viale Carducci,come già era previsto nel vecchio progetto di ristrutturazione,organizzare spazi di parcheggio per autoambulanze ,il personale e i visitatori .

Abbiamo spiegato fino alla noia che il sistema a padiglioni è adottato anche oggi in altre città e regioni e che i padiglioni si possono perfettamente ristrutturare rendendoli efficienti e rispondenti alle esigenze dei tempi, ma che se si fosse scelto un nuovo ospedale a monoblocco, esisteva la possibilità di costruirlo senza problemi, alle spalle dei padiglioni storici, esattamente come  pochi anni fa è stato possibile costruire la nuova piastra della chirurgia.

Certo questa scelta urbanistica, che, lo ricordiamo è stata recepita nel Piano strutturale, impedisce che l’area di viale Alfieri diventi oggetto di speculazioni edilizie, mentre si colloca all’interno della logica del non consumo del territorio . Riteniamo che a questo punto il gioco di proporre aree nuove d’intervento, serva soltanto a riempire qualche colonna dei quotidiani locali e a ritardare finanziamenti e realizzazioni cosa di cui la popolazione  livornese non ha alcun bisogno; concentriamo la partecipazione sul tipo di sanità che desideriamo e sulle modalità di risposta edilizia a tale tipo di sanità.

Ridurre le aree verdi, ipotizzare nuove edificazioni ci sembra, inoltre,  una scelta incapace di cogliere quel rinnovato e forte interesse per le questioni ambientali, espresso anche e soprattutto dalle giovani generazioni, il cui futuro dovrebbe stare a cuore a chi opera scelte che inevitabilmente si ripercuoteranno lungamente sull’assetto urbano futuro.

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Livorno 18 ottobre 2019

domenica 21 luglio 2019

Estratto Atti convegno : “L’ingegneria naturalistica nella riqualificazione ambientale delle cave in Campania” - Napoli 12 Giugno 2007 di Ciro Costagliola


Introduzione 
L’obiettivo fondamentale delle scienze che operano nell’ambito della conservazione e riqualificazione ambientale, delle normative ad esse correlate che via via si stanno adot-tando in tutti i Paesi progrediti e delle relative procedure di attuazione, è quello di cono-scere approfonditamente e contestualmente, conservare e proteggere le risorse ambien-tali nel loro complesso, secondo un equilibrato rapporto di valori, recuperando inoltre, per quanto possibile, il deterioramento del territorio provocato soprattutto nell’ultimo secolo. Per troppo tempo si sono privilegiate solo alcune componenti ambientali, tipi-camente quelle antropiche di tipo socio-economico, senza il giusto rispetto per la con-servazione delle risorse naturali a cominciare da quelle esauribili.
Tra i problemi ambientali di maggiore urgenza, quello rappresentato dalle cave dismes-se si distingue per la notevole complessità degli aspetti e delle competenze coinvolte.
Per la bonifica delle aree di cava, intervento propedeutico al recupero con tecniche di rinaturalizzazione, è necessaria la predisposizione di un piano di risanamento mirato e sviluppato sulla base di una accurata campagna di indagini.
Gli obiettivi che ci si prefigge di raggiungere sono ovviamente funzione sia delle condi-zioni dell’area da recuperare, sia dell’ambiente circostante che giocoforza condiziona le scelte, sia, ma non in ordine di importanza, delle risorse economiche disponibili: fattore quest’ultimo che, come in ogni ipotesi progettuale, condiziona gli obiettivi, la scelta del-le tecniche di recupero e i tempi di realizzazione dell’intervento.
La finalità dell’intervento è che si instauri quel lentissimo processo naturale di evolu-zione verso il climax senza la necessità di azioni successive. L’intervento dell’uomo de-ve avere il solo scopo di accelerare i tempi di naturalizzazione del sito dismesso: infatti la natura da sola riuscirebbe a mitigare quella ferita prodotta dall’intervento estrattivo, ma con tempi molto lunghi se rapportati ai tempi biologici dell’uomo.

Inquadramento geografico e climatico
Preliminarmente è necessario acquisire tutti i dati sull’area dismessa da recuperare: su-perficie, altitudine, esposizione, venti, stato di degrado, caratteristiche pedologiche, ve-getazione, presenza di inquinanti, uso antropico, distanza da abitazioni, distanza dal centro urbano, distanza dal mare e da corsi d’acqua, facilità di accesso, distanza da elet-trodotti, viadotti, strade ferrate.
Poi si passa all’acquisizione dei dati relativi all’area circostante che, oltre alla raccolta dei dati acquisiti per il sito, prevede un’accurata indagine climatica dei dati termoplu-viometrici, fondamentali per la buona riuscita dell’intervento.

Flora e fauna
Si passa alla caratterizzazione del sito con la descrizione dell’area circostante. Importan-te è una buona indagine vegetazionale che ha lo scopo di classificare le piante presenti per poi indirizzare l’intervento con scelte che rispettino il più possibile l’ambiente cir-costante. Lo studio vegetazionale verrà eseguito attraverso l’applicazione del metodo fitosociologico. Le unità vegetazionali così individuate (associazioni) verranno riportate in uno schema sintassonomico e per ciascuna associazione verrà fornita una descrizione per quanto riguarda la composizione floristica, la distribuzione, l’ecologia e l’importanza geobotanico-naturalistica.
Deve seguire poi un’accurata indagine faunistica. L’analisi scaturisce dall’esame di bi-bliografia e studi che negli anni si sono effettuati relativamente al territorio. Un suo si-gnificato ha la presenza della fauna terrestre che, in un ambiente abbandonato, ha gia trovato il suo naturale inserimento.

Obiettivi del progetto di rinaturalizzazione
L’intervento si deve porre come primo obiettivo quello di mirare alla rinaturalizzazione del sito in tempi ragionevoli attraverso la simulazione o la ricostituzione di un ambiente naturale, un habitat che ospita la massima variabilità di organismi vegetali.
Altro aspetto da non trascurare è sicuramente la successiva manutenzione dell’area; le scelte potranno prediligere l’esigenza di un intervento che preveda una manutenzione ridotta al minimo indispensabile e concentrata nel primo anno di impianto. Accrescere la naturalità del sito, favorire la moltitudine di insetti, la varietà di ambienti, rispettare la naturalità del luogo, arricchire l’area, aggiungendo particolari, piante e sistemazioni, atte ad aumentare la variabilità ambientale aumenterà il naturale reinsediamento della microfauna che consentirà la nidificazione dei piccoli uccelli insettivori; con il tempo si formeranno fitti cespugli di vegetazione intricata.
Il progetto non può quindi prescindere dalla profonda conoscenza delle specie vegetali autoctone, di quelle alloctone ed il loro utilizzo per l’uso ornamentale, oltre alla cono-scenza di basi di biologia degli ecosistemi locali. Le specie vegetali autoctone e le loro cultivar offrono una gamma quasi infinita di possibilità per soddisfare ogni esigenza, sia estetica sia pratica, con il grande vantaggio di adattarsi meglio e più facilmente ad un ambiente ricostruito e di richiedere quindi minore manutenzione rispetto alle specie di altra provenienza.

Criteri di scelta
E’ di primaria importanza, nella progettazione di un intervento di rinaturalizzazione, considerare l’ambiente in cui esso è inserito. Il clima, il paesaggio, le tipologie vegetali presenti cambiano molto man mano che ci si sposta lungo la penisola, e la sistemazione del sito dovrebbe integrarsi perfettamente e in maniera armoniosa in essi. E’ noto inoltre che lo stesso verrà influenzato dal quadro naturale circostante: è bene quindi valutare tutti gli elementi che compongono il paesaggio limitrofo. Tutto ciò servirà a raggiungere lo scopo di creare qualcosa di armonico.
E’ importante creare un’area che si fonda perfettamente con lo spirito del luogo in modo da non dare adito a “fratture” a forte impatto visivo, fermo restando l’obiettivo principa-le che è quello di bonificare e rinaturalizzare la sede della cava in disuso.
Da non sottovalutare l’azione del vento che d’inverno acuisce l’effetto del freddo e d’estate con l’aumento della traspirazione determina notevoli problemi.
La scelta dovrà essere indirizzata verso specie autoctone arboree, erbacee ed arbustive ad alto valore ecologico e biologico e a protezione dagli elementi di disturbo. E’ la pro-gettazione vera e propria dell’intervento che tiene conto dell’esistente e cerca di neutra-lizzare o attenuare quegli elementi che impediscono l’evoluzione naturale verso il cli-max. L’intervento può comportare l’impianto di specie pioniere ad alto valore ecologico e la difesa meccanica del suolo. Sarà utile un monitoraggio, a scadenze stabilite, delle conseguenze dell’intervento, comparsa di individui provenienti da aree adiacenti, e la loro naturale evoluzione.
In sostanza, i principi da adottare per la progettazione della sistemazione del sito devo-no soddisfare contemporaneamente la duplice esigenza dell’ambiente naturale, basando-si soprattutto su di un’ampia e solida conoscenza delle specie vegetali, e la creazione di spazi cespugliati alternati a quelli aperti, l’impiego e la disposizione degli arbusti e delle specie erbacee perenni ed annuali, le sapienti proporzioni tra le specie sempreverdi e caducifoglie, sono i principi guida alla base del corretto approccio alla progettazione naturalistica di uno spazio.
Negli anni dovrà rappresentare un ambiente vario, che offra molte e diverse fonti di cibo (insetti, semi, frutti), rifugio (cespugli, siepi, rampicanti), con differenziate situazioni, ricco di piante indigene nei diversi strati vegetazionali: un ambiente che simuli in prati-ca l’habitat naturale per sua natura pluristratificato.
Vanno individuate e scelte piante pioniere che devono essere in grado di sopravvivere su terreni impoveriti ed esposti a forte irraggiamento solare dovuto alla scarsa copertura arborea, siccità prolungata nel periodo estivo, sbalzi di temperatura, chimismo alterato del suolo.

Interventi da eseguire
L’intervento di sistemazione del sito si inserisce nella fase progettuale seguente la rea-lizzazione di strutture ed infrastrutture, a seconda della destinazione finale che si vorrà dare all’area.
In base ai risultati delle indagini pedologiche si procederà ad un adeguato riporto di ter-reno vegetale. Il suo reperimento non è facile ma, conoscendo per tempo l’esecuzione di opere di sterro che si realizzano nelle vicinanze, si potranno programmare i lavori di ri-porto in funzione della disponibilità del terreno vegetale da trasportare.
La scelta di specie vegetali va limitata ad un numero contenuto in quanto nel terreno di riporto che si utilizzerà per l’intervento naturalmente saranno presenti semi, rizomi e parti di piante che daranno origine a nuove piante, oltre alla naturale disseminazione a-nemofila e ornitofila che farà il resto.
Per le specie erbacee ci si deve orientare generalmente verso un miscuglio di gramina-cee, brassicacee e leguminose al fine di equilibrare l’intervento.
La presenza di scarpate potrà consentire l’impiego di gradonate vive, graticciate, gab-bionate rinverdite, palificate vive aventi funzione di consolidamento.
Va esaminata la possibilità di poter utilizzare il sistema dell’idrosemina.
La piantagione delle specie vegetali dovrà essere realizzata in modo da garantire una copertura omogenea del sito concentrando la piantagione in alcuni punti a macchie, e lasciandole più rade in altre al fine di simulare una paesaggio naturale. Il periodo ideale dipende da due parametri fondamentali: la persistenza delle foglie e la possibilità di irri-gazione. Per quanto riguarda il primo aspetto, le specie sempreverdi si piantano in set-tembre-ottobre oppure in marzo-aprile, quelle decidue si pongono a dimora in inverno. Certamente l’ambiente in cui verrà realizzata la piantagione di arbusti è asciutto pertan-to è opportuno intervenire in condizioni favorevoli di umidità del terreno.

Conclusioni
La buona riuscita dell’intervento di rinaturalizzazione è legata all’attenzione che si ha nella realizzazione della stessa con particolare riguardo alla scelta delle specie da intro-durre e al periodo di intervento.
Il risultato sarà la dimostrazione di come una cava che ha la caratteristica di un forte impatto ambientale sul territorio può essere trasformata in un sito rinaturalizzato.
Gli enti interessati potranno patrocinare azioni di divulgazione del progetto di rinatura-zione quale risultato da replicare e sostenere in un momento in cui la problematica delle cave è fortemente sentita. Le scuole potranno organizzare visite naturalistiche dove si potranno mostrare i risultati e la riambientazione della flora mediterranea nonché della fauna sia stanziale che di passaggio.

Limoncino: in una cava dismessa, non si può aprire una discarica, si risagoma e si piantuma.di Daria Faggi


Gli ultimi sviluppi della vicenda tra cittadini ambientalisti e istituzioni regionale e locale, hanno dell’incredibile, perché sbagliare è umano ma perseverare denota un’arroganza inaccettabile.
La tecnica di rinaturalizzazione delle cave segue ormai iter ben noti e uniformi in tutto il paese, e a queste buone pratiche si sono allineate le normative di regioni e ARPAT senza deroghe.
In pratica si tratta di risagomare il fronte della cava da chiudere, con sabbie ghiaie e terriccio per ripiantumare, dopo attenti studi ambientali per garantire una vegetazione omogenea con quella della zona e per non alterare il deflusso delle acque meteoriche e sorgive.
Al massimo si può consentire di conferire in una cava chiusa materiali inerti da demolizione (quali laterizi e pietrame avendo cura di verificare assenza di residui di amianto o di calce) e terre da scavo di fondazioni (ma mai e poi mai si può pensare di aprire una discarica di rifiuti urbani, tantomeno speciali) in una cava dismessa.
Questo è quanto abbiamo sostenuto sempre come OTU, in totale sintonia col comitato di Limoncino.
Tra l’altro anche nel caso di riutilizzo della cava quale area o parco ecologico per visite e studi a carattere geologico, le strutture di accoglienza devono essere calibrate, onde non impermeabilizzare il terreno oltre il 30% per non alterare gli equilibri idrogeologici...
Dunque un’impermeabilizzazione estesa quale quella prevista in una discarica (che produce percolato) è decisamente dannosa.
In allegato vi propongo alcune documentazioni che bene chiariscono i concetti qui esposti con estrema sintesi, per chi avesse voglia di approfondire il problema. 


 Daria Faggi dell'OTU



sabato 6 luglio 2019

Skate park a Livorno quali alternative ? di Tomaso Tocchini dell’Osservatorio trasformazioni urbane Livorno


L’OTU si è posta come scopo primario l’obbiettivo di rilevare ed approfondire  le questioni che le Amministrazioni del territorio affrontano nella programmazione e nelle azioni riguardanti le trasformazioni del sistema urbano, ma è anche vero che la disciplina e gli strumenti generali di questa materia si sostanziano, in base alla loro interpretazione ed attuazione, in opere concrete di ogni genere, per funzione e dimensione per quanto possibile devono rispettarne lo spirito, i principi informatori e le finalità; quindi anche nelle piccole cose si rispecchiano la capacità di lettura, la coerenza, il controllo della trasformazione del territorio, in sostanza la cultura urbana ed ambientale che, chi amministra una città, deve dimostrare; il sistema città va visto anche come sommatoria di interventi e va verificato nei rapporti che si instaurano tra questi.
Per questo motivo siamo intervenuti con una nota anche sui lavori di piazza F. D. Guerrazzi  su cui si è aperto un confronto, purtroppo tardivo, sulla necessità o meno di rispettare l’aspetto materiale della storia della città (il lastrico originario della piazza a nostro parere recuperabile), ma soprattutto per la mancata informazione di un progetto in area sensibile; così pure abbiamo sollevato perplessità sulla ripavimentazione dei portici di via Grande, un’azione che coadiuvata anche da una manifestazione di opinioni nel merito da parte di cittadini e da un rapporto circostanziato presentato dall’Ordine degli Architetti ha prodotto una pausa di riflessione che auspichiamo preceda un cambiamento di programma operativo.
Con questo spirito abbiamo insistito ad affrontare un tema che riguarda una problematica urbana più ristretta, ma comunque relativa al sistema delle relazioni funzionali, ambientali e antropologiche, ponendo l’attenzione sul progetto per la realizzazione di uno skatepark, e soprattutto sulla prevista sua collocazione.

Va premesso che la realizzazione di uno skate park  a Livorno è una necessità urgente, vista la diffusione di questa disciplina tra i giovani che ricercano in ogni spazio disponibile le condizioni per poterlo esercitare;  in queste condizioni attualmente vengono a crearsi situazioni di disagio e talvolta di pericolo, nonché a manifestarsi nel tempo danni agli arredi e superfici degli spazi pubblici dove vengono svolti  poiché non costruiti per sopportare sollecitazioni prodotte da alcuni esercizi di utilizzo degli skateboard.
Ben vengano quindi iniziative a tale scopo, ma va tenuto in considerazione l’aspetto strutturale dello skate park e la compatibilità di questo e del suo utilizzo con il contesto in cui venga collocato.
Chi ha presente la struttura e l’uso di uno skate park  può constatare come abbia un impatto invasivo che ha la necessità di essere mitigato da un ambiente funzionalmente coerente e se possibile sufficientemente  isolato. 
I percorsi di evoluzione sono contenuti in piste e vasche cave arrotondate, altri percorsi sono quelli composti da dossi, cunette e trampolini, tutti con dislivelli rilevanti; il loro sviluppo deve essere sufficientemente ampio per evitare incroci e sovrapposizione di percorsi di un numero congruo di  utilizzatori, quindi complessivamente contenuti in un’area di almeno 1000 mq. Le forme plastiche risultanti possono ricavarsi anche per sottrazione, quindi con scavi del terreno, ma è evidente che anche in questo caso una buona parte delle costruzioni emergono in significative altezze ; a queste volumetrie plastiche si potrebbero aggiungere eventuali volumi per servizi dedicati.
Queste perplessità espresse al primo annuncio dell’iniziativa ha trovato motivo di preoccupazione quando il sabato precedente al giorno della consultazione  elettorale è apparso un articolo sulla stampa cittadina che comunicava l’affidamento dell’appalto dei lavori e che produceva una immagine dell’impianto previsto.
È quindi certo che sarà comunque un impianto a forte connotazione, di forte impatto visivo, e  la collocazione che l’amministrazione pare abbia trovato, è quantomeno sconsiderata per le seguenti ragioni.  Perché questo verrebbe realizzato accanto alla pineta della Rotonda di Ardenza, luogo di tranquillità e relax, dove recentemente è stata rinnovata la baracchina destinata ad essere anche un luogo di eventi culturali;
Perché sarebbe confinante con un viale a forte intensità di traffico,  dal quale,  all’uscita della sua curva della Rotonda, si apre la vista mare e un cono visivo di particolare suggestione paesaggistica, rispetto alla quale questo impianto si interporrebbe;
Perché sarebbe a contatto con lo spazio da sempre dedicato alla passeggiata di TUTTE la famiglie livornesi e non e per altre più specifiche ragioni di opportunità e sicurezza.
C’è da augurarsi che questa  scelta, nata forse dalla voglia di dare risposte celeri, venga velocemente  smentita, e che si operi una riflessione attenta delle problematiche che quest’impianto, giustamente richiesto dai ragazzi, produce se posto in un ambito non adeguato alla sua presenza: anche per queste scelte che possono sembrare semplici, necessitano studi, confronti, valutazioni, condivisione, partecipazione. 
Di seguito si indicano due collocazioni alternative adiacenti che non cambierebbero di molto l’attrattività dell’impianto e che si inserirebbero in contesti ben più compatibili, in un paesaggio che ne mitigherebbe l’impatto visivo e che inoltre occuperebbero spazi sottoutilizzati o abbandonati: il primo è tra il rio Ardenza e il campo da golf, dove attualmente si trova una pista di pattinaggio mai utilizzata; il secondo è posto a titolo esemplificativo di come potrebbe essere occupata un’area residuale della zona sportiva della Banditella, comparto che, con opportuno programma della nuova Amministrazione potrebbe offrire diverse soluzioni al caso oltre che costituire campo di prova della capacità di invertire la tendenza al degrado di ampie porzioni della città. Su questo specifico aspetto riguardante la Banditella si rimanda alla relazione specifica che si trasmette separatamente.

Luglio 2019


Per l’Osservatorio delle Trasformazioni Urbane: Tommaso Tocchini Livorno 21.06.2019_ Nota sulle condizioni dell’area pubblica del parco della Banditella.


Sono certo che la nuova Amministrazione Comunale potrà trovare in questo documento argomenti utili per lavoro che dovrà affrontare per invertire la tendenza al degrado cui sembra destinata la città.
È un estratto dell’articolo che ho pubblicato sulla nuova rivista dell’Ordine degli Architetti di Livorno che ha come tema la vicenda del Piano Comunale Esecutivo del Parco della Banditella che ritengo significativa per esprimere la difficoltà o incapacità che le AA_PP mostrano spesso nel governare programmi urbanistici che abbiano un minimo di complessità gestionale e l’incapacità di perseguire una visione sistemica del territorio urbano.
L’area sportiva della Banditella, come altri più complessi ambiti della città, non ha potuto dimostrare l’efficacia dell’originaria ipotesi progettuale che può essere ancora valida e recuperabile: infatti le concessioni di tre lotti del complesso sono in scadenza e la loro riassegnazione può essere occasione per recuperare seppur parzialmente quanto smarrito per negligenza ( e per cos’altro?).  

ESTRATTO DELL’ARTICOLO
Viene tralasciata la premessa riguardante la fase storica di trasformazione anteguerra.

Con il primo Piano Regolatore Generale – PRGC- del 1958 (arch. E. Detti), che destinava la maggior parte di quest’area a verde pubblico, cominciò a prendere forma la rete stradale della zona, ma è con il Piano del 1977 (arch. I. Insolera) che la vasta area residua assume l’assetto odierno: fu infatti suddivisa in due zone, una di lottizzazione residenziale e l’altra (quella ceduta dalla proprietà al Comune) destinata a verde pubblico ed a strutture per lo sport e tempo libero.
Se lo sviluppo della zona di espansione edilizia, in virtù del pregio naturale della posizione, non tardò a colmare la previsione, l’area con destinazione di pubblico interesse ha avuto ben altro destino, finendo per tradire, nel tempo,  i principi a cui era stata indirizzata con un apposito Piano Comunale Esecutivo (PCE) e finendo per costituire un aggregato di attività destrutturate che oggi fanno apparire la zona un enclave estraneo al tessuto urbano, più equiparabile ad una periferia abbandonata che ad un parco pubblico attrezzato che un sito ambientale così suggestivo avrebbe meritato.
Il mancato compimento di una progettazione urbanistica rappresenta sempre un’occasione persa; ciò può derivare, a priori, da una debolezza strategica nell’ideazione o da un’errata interpretazione della situazione in cui avrebbe dovuto inserirsi, delle risorse o dei soggetti cui doveva rivolgersi.  Più spesso l’occasione persa è però dovuta alla successiva mancanza di rigore amministrativo oppure alla strumentalizzazione della pianificazione, cosa assolutamente ingiustificabile dal punto di vista politico e frustrante per chi l’ha espressa e chi l’ha tradotta in un progetto.
La storia del Piano Esecutivo Comunale (PCE) della Banditella può interpretare efficacemente questa tesi mostrando il risultato di come si è operato sulla base di un piano di programmazione che aveva le migliori intenzioni di dotare un quartiere e la città di un complesso dedicato allo sport giovanile e di un parco pubblico in un’area ad alta valenza paesaggistica in prossimità della costa.  Anche se il PCE è uno strumento di indirizzo, non appartenente al corpo normativo generale, tuttavia con questo si intendeva rappresentare il modello di riferimento che garantisse a quest’area, pervenuta nella disponibilità pubblica, di rappresentare al meglio le finalità espresse dall’amministrazione comunale  per attuare quanto stabilito dal Piano Regolatore Generale vigente. Peraltro il piano vigente negli anni ’80 confermava per quest’area la destinazione stabilita dal precedente, che fu ribadita anche successivamente dall’ultimo piano del 1998 (Gregotti Associati): Basta consultare la cartografia e le norme attuative dei piani citati, per constatare quanta importanza sia stata sempre attribuita a questa zona verde, in termini di qualità urbana, di prospettive di sviluppo e di quantità relative ai parametri urbanistici che negli ultimi decenni si sono sensibilmente ridotti nell’assetto generale urbano.
Il Comune di Livorno approva nell’ 86  un Piano Comunale Esecutivo: uno strumento urbanistico di dettaglio previsto nella normativa di attuazione, un progetto preliminare per dare forma fisica alle previsioni del PRGC, che serviva a coordinare la realizzazione delle attrezzature più propriamente sportive con le esigenze di tipo ricreativo e naturalistiche proprie del Parco, ma anche a perseguire gli obiettivi più generali, di riequilibrio e razionalizzazione della fascia costiera contenuti nel Piano Particolareggiato della Costa, mettendo in relazione questa vasta area di oltre 30 ettari con il lungomare.
Il PCE, nel rispetto del rapporto dimensionale stabilito tra verde attrezzato e parco urbano, prevedeva quattro impianti in linea appoggiati su una strada di servizio con parcheggi parallela alla ferrovia, che occupavano circa un terzo dell’area; dal lato opposto, una fascia verde come cuscinetto tra questi e la zona residenziale; infine due percorsi trasversali attraversavano la zona sportiva e la fascia verde che, insieme all’ampio parco naturale a nord,  in prossimità del rio Ardenza, dovevano connettere le strutture ed il retroterra con i giardini storici del lungomare.
Tra gli elementi qualificanti del PCE vi era e la creazione di nuovi spazi pubblici attrezzati di socializzazione e la promozione dello sport giovanile, finalità che doveva essere presente nello statuto delle società che avessero richiesto l’assegnazione dei terreni in concessione. Nel progetto di riferimento questa esigenza veniva rappresentata nel dialogo tra le strutture e gli edifici destinati a servizi che si fronteggiavano  sulle piazze allungate da cui partivano gli assi trasversali, concepite come luogo d’incontro e centri di aggregazione del parco diffuso; non a caso, per convenzione, questi spazi esterni dovevano essere realizzati dagli assegnatari insieme a tutte le infrastrutture di servizio, le strade e i parcheggi.
Ma subito nei primi anni si susseguirono tre varianti di adeguamento alle diverse esigenze avanzate dalle società e associazioni assegnatarie, che, seppur non alterando la sostanza dell’impianto generale, si rivelarono, a posteriori, come primi sintomi di una gestione faticosa dell’attuazione del piano che nel corso degli anni è andata sempre più deteriorandosi.
Gli ultimi atti che hanno dato il colpo finale all’ambizioso progetto iniziale sono stati la perdita della proprietà pubblica di uno dei quattro lotti, conseguente ad una inconcepibile gestione del dissesto finanziario del concessionario, ed il cambio di destinazione dell’ampia area panoramica, aperta al mare, confinante col rio Ardenza, da parco naturale a campo di golf con la conseguente sua sottrazione al libero uso pubblico.
È sconfortante il panorama che offre oggi questa zona che, rimuovendo le inutili nostalgie di quello che fu l’ultimo presidio agricolo costiero celebrato nell’800 dai pittori macchiaioli, avrebbe potuto offrire nuove opportunità di incontro e di crescita sociale non solamente alle giovani generazioni, ma anche a tutti i livornesi che affollano i giardini del lungomare per fare una passeggiata o per svolgere libere attività fisiche.
Dei servizi inizialmente previsti sono stati realizzati solamente quelli essenziali all’uso dei campi da gioco, nessun edificio tra quelli che dovevano strutturare architettonicamente il complesso, nessun servizio complementare o che rappresenti un minimo di supporto ad una funzione di accoglienza e conforto per un’area pubblica che aveva avuto l’aspirazione di diventare una parte urbana ed un valore aggiunto per la città: qualità zero, porzioni  di aree verdi  fagocitate dai campi di calcetto, le superfici destinate a piazze invase da canneti e sterpaglie, le aree di parcheggio sistemate al minimo indispensabile e prevalentemente lasciate sterrate ed anch’esse invase da vegetazione spontanea, misere recinzioni in maglia di ferro e scheletri di costruzioni in cemento armato; quello che non manca è una potente illuminazione per l’utilizzo intensivo anche notturno dei campi di calcetto.
Nessun beneficio è stato apportato da un’area che poteva rappresentare un tassello importante per la vivibilità della città, per il suo paesaggio,  ed un importante attrattore per lo sviluppo turistico; nessun beneficio economico per le casse comunali.
Per quanto riguarda l’area  destinata a parco c’è da dire che l’Amministrazione Comunale  si è sempre trovata in difficoltà nel definirla compiutamente, in quanto impegnativa per la sua estensione, ed ha esplorato inutilmente la fattibilità di diverse destinazioni che avrebbero dovuto conciliare la sostenibilità economica  col mantenimento dell’uso e dell’interesse  pubblico, ma ogni piano ha un senso se visto nella sua completezza e nel contesto nel quale è stato concepito e il PCE avrebbe avuto soluzione se i concessionari avessero ottemperato agli obblighi stabiliti dal programma, se avessero realizzato quanto previsto, se non avessero realizzato il minimo essenziale e funzionale al massimo reddito col minimo sforzo e soprattutto se l’Amministrazione Comunale avesse ben vigilato ed, in sede di contrattazione, non avesse ceduto alle richieste dei concessionari che hanno aperto la via a comportamenti controproducenti per l’assetto dell’area. L’area destinata a verde pubblico, sostenuta dalla prevista rete di infrastrutture e servizi, sarebbe diventata un vero parco, elemento integrante della cittadella dello sport e cuore dell’area di svago che avrebbe compreso anche le attività del mare che nel frattempo hanno avuto sviluppo con le strutture organizzate sulla costa adiacente. Peraltro l’area verde, quella che oggi è recintata e dedicata al golf, seppure abbandonata alla vegetazione spontanea, era prima frequentata, specialmente nei giorni festivi, da famiglie, da appassionati di aquiloni, da proprietari di cani che portavano i loro animali a correre, ed assolveva in maniera spontanea alla funzione pubblica. L’ipotesi di crearci una pista ciclabile era sfumata, giustamente, allorché fu ritenuta necessaria, da chi ne avrebbe gestito l’uso, la realizzazione di una recinzione per motivi di sicurezza. Cadde anche l’idea di predisporla agli eventi temporanei, feste e fiere, perché le particolari condizioni climatiche cui la zona è sottoposta, specialmente a periodici forti venti, avrebbero imposto la costruzione di strutture stabili che mal si conciliavano con la temporaneità degli eventi, escludendone il libero uso pubblico. La libertà selvaggia dell’area ha capitolato però di fronte all’offerta per la realizzazione di un campo di golf. Le motivazioni di questa scelta sono state: garantire il mantenimento di un’area verde considerata incolta e sottoutilizzata, nobilitare l’area tramite la caratterizzazione tipica degli spazi dedicati a questa pratica sportiva, contribuire all’attrattività turistica della città, creando un impianto quasi unico in un’area urbana, complementare agli altri impianti sportivi presenti nel comparto; in sostanza creare una gradevole area verde attrezzata fruibile dalla cittadinanza di ogni età. Le stesse motivazioni si smentiscono da sole trasgredendo principi elementari che dovrebbero ispirare l’uso del patrimonio comune e naturale; la pratica ormai avviata di questo impianto dimostra quanto il risultato di questa scelta si avvicini di molto all’esito degli impianti sportivi adiacenti, praticamente finendo di occupare tutta l’area pubblica con una destinazione che ha in assoluto  il minimo valore nel  rapporto utenti e superficie occupata. La presenza di quest’area inaccessibile si oppone peraltro alla possibilità di mettere in comunicazione le zone sportive con il lungomare  e ad ogni altra percorrenza da est ad ovest, da nord a sud, contravvenendo al rapporto tra area a parco pubblico ed area attrezzata per lo sport stabilito in origine dal Piano Regolatore e negando l’appartenenza dell’area al contesto naturale ed al sistema funzionale del piano della costa.

COSA SI POTREBBE FARE
Con la scadenza, a novembre di quest’anno,  delle concessioni trentennali di tre lotti di quest’area promessa alla promozione dello sport,  l’Amministrazione ha l’occasione di recuperarla dalla sua attuale condizione indegna per la città per affidarla ad uso più appropriato ed utile alla comunità: già con un nuovo procedimento di assegnazione che semplicemente pretenda il rispetto di quelle che dovevano essere, già alla prima assegnazione, le prescrizioni ed obblighi ( in sostanza di realizzare compiutamente i progetti in base ai quali vennero assegnati i lotti, comprese le opere infrastrutturali e servizi previsti dal piano attuativo ) si può migliorare la situazione, senza escludere nuove prospettive che la nuova Amministrazione potrebbe avere intenzione di perseguire, per eventuali nuove opportunità che potrebbe intravedere per integrare il sistema di servizi per il tempo libero e lo sport.
L’OTU rimane a disposizione per approfondimenti e anche per integrare con documentazioni ed illustrazioni quanto sopra esposto.