Gli ultimi sviluppi della vicenda tra cittadini ambientalisti e istituzioni
regionale e locale, hanno dell’incredibile, perché sbagliare è umano ma
perseverare denota un’arroganza inaccettabile.
La tecnica di rinaturalizzazione delle cave segue ormai iter ben
noti e uniformi in tutto il paese, e a queste buone pratiche si sono allineate
le normative di regioni e ARPAT senza deroghe.
In pratica si tratta di risagomare il fronte della cava da
chiudere, con sabbie ghiaie e terriccio per ripiantumare, dopo attenti studi
ambientali per garantire una vegetazione omogenea con quella della zona e per
non alterare il deflusso delle acque meteoriche e sorgive.
Al massimo si può consentire di conferire in una cava chiusa materiali
inerti da demolizione (quali laterizi e pietrame avendo cura di verificare
assenza di residui di amianto o di calce) e terre da scavo di fondazioni (ma mai e poi mai si può pensare di aprire
una discarica di rifiuti urbani, tantomeno speciali) in una cava dismessa.
Questo è quanto abbiamo sostenuto sempre come OTU, in totale
sintonia col comitato di Limoncino.
Tra l’altro anche nel caso di riutilizzo della cava quale area o
parco ecologico per visite e studi a carattere geologico, le strutture di accoglienza
devono essere calibrate, onde non impermeabilizzare il terreno oltre il 30% per
non alterare gli equilibri idrogeologici...
Dunque un’impermeabilizzazione estesa quale quella prevista in una
discarica (che produce percolato) è decisamente dannosa.
In allegato vi propongo alcune documentazioni che bene chiariscono
i concetti qui esposti con estrema sintesi, per chi avesse voglia di
approfondire il problema.
Daria Faggi dell'OTU
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