Quando si fanno scelte che trasformano, più o meno pesantemente il volto e la vita di una città, dovrebbe esserci almeno la consapevolezza che quelle scelte incideranno su chi quella città la abita, non solo nel presente, ma per molti, molti anni nel futuro.
È una grande responsabilità per chi amministra la cosa pubblica, che ovviamente non deve improvvisare né essere condizionato/a da interessi “particolari”, che, per loro natura, non per malvagità, si contrappongono spesso alle necessità e ai desideri di tanta parte della comunità, che in molti casi purtroppo non ha voce.
L’urbanistica moderna, nata in seguito alla seconda rivoluzione industriale, risponde ad una necessità, che è di ogni comunità, cioè quella di impedire una crescita caotica, portatrice di profondi squilibri, funzionale solo agli interessi di pochi, affermando la preminenza dell’interesse collettivo, (d’altra parte più volte sottolineato anche nella nostra Costituzione), il valore dei beni comuni, il diritto di ciascuno e ciascuna di vivere in un ambiente accogliente, ben organizzato, di cui sentirsi a buon diritto cittadino/a.
Ma nell’epoca dell’affermazione del neoliberismo, che ha investito tutti i campi, mettendo a rischio se non distruggendo gran parte delle conquiste sul terreno dell’equità e di una maggiore giustizia sociale, anche per quanto riguarda il governo del territorio abbiamo assistito ad un progressivo svuotamento del senso e del ruolo dell’Urbanistica.
Anche a Livorno
Per anni i piani regolatori adottati sono stati disarticolati da una serie di varianti, tanto che la variante al Piano ha sostituito lo stesso PRG, arrivando al paradosso delle VARIANTI ANTICIPATRICI. La pratica dell’urbanistica “contrattata” ovvero la scelta di operare la trasformazione di aree strategiche delle città, attraverso la concertazione tra interessi privati e interesse pubblico ha prodotto, a nostro avviso, risultati negativi evidenti e pesanti: la Porta a mare e la Porta terra nonché il Nuovo Centro, sono il frutto malato di questa stagione. Intendiamoci è ben vero che spesso buona parte dei PRG restava sulla carta senza realizzarsi, per strutturali carenze di strumenti legislativi (Legge sul regime dei suoli, che rendesse praticabile l’esproprio per pubblico interesse) e per carenza di finanziamento statale, e dunque le parti di piano più facilmente attuate erano quelle che attiravano interessi e dunque investimenti privati.
Oggi stiamo andando, nella nostra città, anche oltre: stiamo assistendo ad un rovesciamento dei principi ispiratori dell’urbanistica ed ad una nuova fase in cui le scelte di governo del territorio sono motivate dal giustificare “a posteriori”, cioè a cose già decise, progetti di trasformazione urbana ideati e finanziati al di fuori di uno studio generale di pubblico interesse.
Caso esemplare e significativo il “progetto” del nuovo ospedale di Livorno, localizzato in un’area in contrasto con le previsioni di piano in vigore, che richiede comunque, per essere legittimato di una variante urbanistica.
E così, con una disinvolta pratica di “urbanistica passo dopo passo”, più volte richiamata e apprezzata dalla assessora Viviani, si fa perno su un progetto di edilizia ospedaliera, la cui tipologia ha già mostrato molti limiti negli ospedali dello stesso tipo costruiti in questi ultimi anni in Toscana e su finanziamenti promessi, per stravolgere pesantemente un comparto non trascurabile della città attraverso indicazioni che sembrano contraddire ogni criterio del buon governo del territorio, come il rispetto del patrimonio ambientale e architettonico, l’eliminazione del consumo di suolo, la mitigazione del traffico urbano.
Non è necessario essere amministratori esperti per individuare le oscurità, le contraddizioni ed i limiti di questa operazione complessiva e ci chiediamo: perché la localizzazione del nuovo ospedale viene sostenuta dalla Amministrazione comunale come scelta blindata?
Perché non si fa conoscere, se esiste, alla città lo studio propedeutico all’idea di nuovo ospedale sulle esigenze socio-sanitarie attuali e di prospettiva della città, soprattutto alla luce di quanto è avvenuto con la pandemia?
Perché non si riconosce che assai fumoso è il destino di ciò che sembra condannato all’abbandono e che anche quando si fanno ipotesi, queste non sono supportate da alcuna certezza in ordine ai finanziamenti ed ai soggetti che dovrebbero intervenire?
E soprattutto perché l’Amministrazione Comunale rinuncia al suo ruolo nella pianificazione territoriale e perché questa resa incondizionata dell’urbanistica alla fattibilità (e ricattabilità) degli investimenti?